Stefano Belacchi aveva 20 anni ed era uno studente politicamente attivo quando ha iniziato a partecipare alle campagne per i diritti degli animali in Italia. Dopo alcuni anni di campagne locali contro le pellicce, la vivisezione e altre azioni, ha co-fondato il gruppo animalista Essere Animali. Stefano ha collaborato con loro per diversi anni, partecipando come fotografo alle loro indagini, oltre che a quelle con vari altri gruppi, come Equalia, Sea Shepherd e Animal Equality. Nel 2017, con la filosofa Benedetta Piazzesi, Stefano ha pubblicato Un Incontro Mancato, un saggio sul fotoreportage animalista. È anche uno degli oltre 40 fotografi che hanno contribuito al nostro libro HIDDEN: Animals in the Anthropocene.
Abbiamo incontrato Stefano per saperne di più sui suoi oltre 10 anni di esperienza nel documentare storie di animali e sui suoi progetti di fotogiornalismo animale attuali e futuri.
Ho cominciato a fare foto negli allevamenti nel 2011 dopo molti anni di attivismo animalista. Ad un certo punto ci siamo resi conto che era necessario documentare professionalmente quello che stava accadendo negli allevamenti e la fotografia era lo strumento più efficace per raccontare le storie degli animali sfruttati. Ricordo una delle prime volte in cui siamo entrati in un allevamento di polli che già conoscevamo cercando di fare qualche foto illuminando la scena con una torcia elettrica! Eravamo dei principianti ma sono comunque riuscito a scattare una delle foto che ancora oggi preferisco.
In Italia la maggior parte del lavoro di investigazione è svolto da tre grosse associazioni e quello che stanno facendo è grandioso. Sempre più spesso capita di avere documenti video pubblicati sui telegiornali e sulle trasmissioni di approfondimento a livello nazionale e questo sta effettivamente aumentando la consapevolezza sulla realtà della zootecnia.
Credo comunque che ci sia ancora molto da fare sul piano fotografico, ad oggi la maggior parte dei contenuti sono video e sono pensati per la televisione o per i social ma manca una analoga presenza sulle riviste settimanali di informazione, sui giornali e nei grandi concorsi fotografici.
Qualche anno fa ho lavorato ad una serie di ritratti di animali cercando di farli emergere dal buio intorno a loro. Uno dei mei preferiti è quello di due tacchini, il loro sguardo sembra pieno di rancore come se volessero minacciare l’osservatore.
Mi piace rappresentare gli animali come agenti della loro lotta. Nel movimento per i diritti animali abbiamo troppo spesso uno sguardo paternalista nei loro confronti, usiamo ancora parole estremamente escludenti come “senza voce” per riferirci a loro e continuiamo a rappresentare gli umani come i principali attori della lotta di liberazione animale.
Vorrei cercare di sottolineare invece la loro resistenza e restituirgli la dignità della lotta ricordando che anche quando noi ci chiudiamo alle spalle le porte degli allevamenti loro restano lì a combattere per la loro sopravvivenza e libertà.
Ultimamente uso una Nikon Z6 è una mirrorless abbastanza nuova e mi trovo super bene! Di solito mi porto dietro il suo 24-70 f2.8 e, se sto lavorando in un allevamento al chiuso, non mi servono altre ottiche, mi porto però un paio di luci (un faretto led e un paio di flash con relativi trigger). Alcune volte mi porto per sicurezza anche un grandangolo spinto come il 14-24 f2.8 di nikon e un’ottica molto luminosa nel caso si debba lavorare con poca luce (ho due lenti nikon per l’occasione: il 35mm f1.8 e il 50mm f1.4). Se sto lavorando all’aperto mi porto anche il mio nuovo tele: il meraviglioso 70-200 f2.8 della serie Z di Nikon, è la lente migliore che ho mai avuto e vorrei usarlo sempre!
Oltre all’attrezzatura fotografica nello zaino ho sempre un paio di radio, dei vestiti di ricambio, cibo e acqua, fazzoletti e gel igienizzante.
Nel 2020, in occasione di un incarico con We Animals e con il supporto di Sea Shepherd, hai documentato l’uso di dispositivi di aggregazione dei pesci (FAD) nel Mar Mediterraneo. Come procedono le attività di sensibilizzazione su questo tema nella regione? Ci sono stati cambiamenti evidenti, positivi o negativi, da allora?
Quello che sta succedendo nel Mediterraneo è una storia vecchia di secoli. Il tipo di pesca coi fad è diffuso da lunghissimo tempo e non è facile convincere le persone che questa tradizione non è più sostenibile. Le televisioni e i giornali sono parte fondamentale di questa narrazione falsa che continua a rappresentare i pescatori come vittime di questi tempi anche se è dimostrato che sono le loro attività a causare il calo di biodiversità e la carenza di pesce.
Il lavoro che sta facendo Sea Shepherd è molto importante ma da solo non sarà mai abbastanza. Il Mediterraneo è il mare più sovrasfruttato al mondo e tutt* dobbiamo fare la nostra parte per far capire alla gente che non esiste la pesca sostenibile.
Non credo che i sentimenti umani debbano avere la priorità in questo lavoro. Come attivisti* abbiamo deciso di fare la nostra parte a fianco degli animali, ma questo non ci dà il diritto di mettere al centro noi stessi e i nostri problemi. Chi soffre davvero sono gli animali degli allevamenti. Chi vuole contribuire a documentare questa realtà può trovare molti modi per superare questo senso di disperazione e impotenza, e se dopo averci provato ci si rende conto di non riuscire a superarlo, ci sono ancora molti altri modi per contribuire alla causa.
Credo che ogni volta che parliamo di quanto sia difficile trovarsi faccia a faccia con la sofferenza degli animali, spostiamo l’attenzione dalla loro sofferenza alla nostra. Per anni abbiamo dipinto gli animalisti come eroi (e lo facciamo ancora!). Credo sia giunto il momento di cambiare approccio e spiegare che quello che facciamo non è speciale, richiede solo impegno e perseveranza.
L’unica cosa che mi sento di dire a chi vorrebbe iniziare questo lavoro è questa: se gli animali riescono a sopravvivere all’interno degli allevamenti e nonostante tutto trovano la forza di lottare, allora noi possiamo sopportare qualche ora di esposizione a immagini un po’ forti. A differenza loro, noi abbiamo un privilegio: possiamo sempre andarcene.
Fin dall’inizio ho cercato di curare le inquadrature e la luce e dopo diversi anni credo di aver trovato il mio stile. Le ombre giocano un ruolo fondamentale nella maggior parte delle mie fotografie.
Credo che ai giorni nostri il ruolo della fotografia animalista sia solo in parte di documentare, quello che serve maggiormente sono delle immagini capaci di coinvolgere lo spettatore e restituire al pubblico il dramma che gli animali stanno vivendo.
Sono stato sicuramente influenzato dai grandi maestri della pittura e della fotografial in particolare da Michelangelo Merisi (meglio noto come Caravaggio) per la sua capacità unica di restituire dignità ai marginalizzati facendoli emergere dall’ombra nel quale la società li aveva collocati.
Abbiamo ignorato i problemi ambientali e la condizione animale per tutta la storia umana e ora ne stiamo pagando le conseguenze. Non abbiamo più molto tempo per cambiare la direzione delle nostre vite e sicuramente non possiamo più ignorare la situazione.
La questione animale è un tema problematico per il fotogiornalismo e per i media generalisti perchè fondamentalmente dice alla gente che le scelte fino ad ora fatte stanno causando una sofferenza incalcolabile e non sono più accettabili per il pianeta. Nessuno vuole sentirsi dire questo. Credo però che se vogliamo fare buona informazione non possiamo tacere su alcuni argomenti solo perchè non sono ciò che il pubblico vorrebbe ascoltare, possiamo trovare i modi migliori per parlarne e scegliere le immagini più adatte a ciascun canale di comunicazione. Fondamentalmente questo è quello che il fotoreportage animalista sta cercando di fare ma certamente far finta che nulla stia accadendo non è più una strada percorribile.
Mi piacerebbe molto parlare della connessione tra l’allevamento e la perdita di biodiversità. Sono un appassionato di scienze naturali e negli ultimi dieci anni ho molto approfondito l’ecosistema forestale nell’Italia centrale. Quando pensiamo a questo tema ci viene automatico il collegamento tra i grandi appezzamenti di pascolo sudamericani e la conseguente deforestazione. Si tratta di un argomento enorme e ancora non pienamente documentato sul quale mi piacerebbe molto lavorare. C’è però anche un’altra parte di questa storia che si svolge nei paesi altamente industrializzati. In Europa abbiamo perso la maggior parte delle foreste originarie negli ultimi mille anni e la maggior parte di esse sono state tagliate per fare spazio alle colture cerealicole che usiamo per foraggiare gli animali da allevamento. Quando la popolazione europea passerà ad una dieta a base vegetale dovremo pensare a come utilizzare queste enormi porzioni di territorio che oggi coltiviamo solo per nutrire mucche, polli e maiali. Ci sono alcuni esempi di campi prima destinati alle colture e oggi impiegati per recuperare parte della biodiversità perduta, mi piacerebbe approfondire queste storie e metterle in relazione con le condizioni degli animali nell’allevamento intensivo.
Questo è il mio progetto a lungo termine. Nell’immediato sto per imbarcarmi con Sea Shepherd Global per documentare la pesca illegale, non riportata e non regolamentata nell’Africa occidentale.
Ho un sito personale dove inserisco la maggior parte dei miei lavori, un profilo instagram che uso per promuovere il fotoreportage animalista e una pagina facebook nella quale inserisco alcune riflessioni sul mio lavoro e le descrizioni più dettagliate delle foto. Ho pubblicato “Un incontro mancato – Sul fotoreportage animalista” un saggio scritto dalla Dott. Benedetta Piazzesi e illustrato dalle mie fotografie. È anche disponibile una mostra con 25 foto per esposizioni e dibattiti sul tema.